Slideshow 侍- SakurAlberico - 侍 : ottobre 2013

lunedì 7 ottobre 2013

Steve Jobs: il discorso all’università di Stanford, testo



Questo è il testo del celeberrimo discorso di Steve Jobs all’università di Stanford, l’università che fu costretto a lasciare perché non aveva soldi a sufficienza per permettersi i corsi che frequentava. Sono parole che passeranno allo storia, che danno prova della sua straordinaria determinazione.
Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato ad un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.
La prima storia parla di “unire i puntini”.
Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università.
Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.
Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio:
il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.
Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo.
Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia parla di amore e di perdita.
Fui molto fortunato – ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta da noi due soli in un garage sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione – il Macintosh – un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni… quando venni licenziato. Come può una persona essere licenziata da una Società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona – che pensavamo fosse di grande talento – per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro Consiglio di Amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.
Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare.
Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, Toy Story, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che ‘il paziente’ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il/la vostro/a findanzato/a che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.
La mia terza storia parla della morte.
Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatrè anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa.
Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento – sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.
Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa ‘a sistemare i miei affari’, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi ‘addio’.
Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.
Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale:
Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la Morte è la migliore invenzione della Vita. E’ l’agente di cambio della Vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora ‘il nuovo’ siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete ‘il vecchio’e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità.
Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava The whole Earth catalog, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali.
Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di The whole Earth catalog, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.
Siate affamati. Siate folli.

Eppure Sentire (Un Senso Di Te)

A un passo dal possibile 

A un passo da te 
Paura di decidere 
Paura di me 

Di tutto quello che non so 
Di tutto quello che non ho 

Eppure sentire 
Nei fiori tra l'asfalto 
Nei cieli di cobalto - c'è 

Eppure sentire 
Nei sogni in fondo a un pianto 
Nei giorni di silenzio - c'è 

un senso di te 

mmm...mmm...mmm...mmm... 
C'è un senso di te 
mmm...mmm...mmm...mmm... 

Eppure sentire 
Nei fiori tra l'asfalto 
Nei cieli di cobalto - c'è 

Eppure sentire 
Nei sogni in fondo a un pianto 
Nei giorni di silenzio - c'è 

Un senso di te 

mmm...mmm...mmm...mmm... 
C'è un senso di te 
mmm...mmm...mmm...mmm... 

Un senso di te 
mmm...mmm...mmm...mmm... 
C'è un senso di te

dire la verita

Dal momento in cui impariamo a parlare, ci sì insegna che le nostre parole devono essere veritiere. Che cosa vuoi dire? Che cosa significa: "dire la verità"? Che cosa ci viene ri­chiesto?
Evidentemente i genitori sono i primi che, con l'esigere la veridicità, regolano il nostro rapporto con loro; quindi in un primo tempo tale esigenza, nel senso inteso dai genitori, si ri­ferisce e si limita alla ristretta cerchia della famiglia. Bisogna osservare inoltre che il rapporto che si esprime in questa esi­genza non è senz'altro reversibile. La veracità del bambino ver­so i genitori è essenzialmente diversa da quella dei genitori verso dì lui. Mentre la vita del piccolo bambino è interamen­te aperta dinanzi ai genitori, e la sua parola deve svelare tutto ciò che è nascosto e segreto, non è pensabile il caso inverso. Riguardo alla veracità, l'esigenza dei genitori verso il bambino è diversa da quella del bambino verso di loro.
Se ne deduce subito che "dire la verità" ha un significato diverso secondo le rispettive posizioni. Bisogna tener conto dei rapporti che esistono in ogni singolo caso. Bisogna domandarsi se e in che modo un uomo ha diritto di esigere da un altro un discorso veritiero. Come il linguaggio usato tra genitori e figli è per natura diverso da quello tra marito e moglie, tra due amici, tra maestro e scolaro, tra autorità e suddito o tra ne­mici, cosi pure la verità contenuta in quelle parole è di volta in volta diversa.
Si obietterà subito che siamo debitori di un parlare veritie­ro a Dio e non a questo o quell'individuo, ed è vero, sempre che non si trascuri il fatto che Dio non è un principio universa­le ma è il Dio vivente che mi fa vivere una vera vita e vuole che io lo serva in essa. Chi dice Dio non può semplicemente cancellare il mondo reale in cui vive; altrimenti non parlerebbe" dinanzi al Dio che in Gesù Cristo è entrato in questo mondo, bensì dinanzi a un qualche idolo metafisico. La questione è appunto questa: come posso io mettere in pratica nella mia vi­ta concreta, con tutti i suoi diversi rapporti, quel parlare veri­tiero di cui sono debitore a Dio. La veracità delle nostre parole, che ci è richiesta da Dio, deve assumere una forma con­creta nel mondo. Il nostro parlare dev’essere veritiero non in linea di principio, ma in pratica. Una veracità astratta non è veritiera dinanzi a Dio.
"Dire la verità" non è dunque soltanto una questione di at­teggiamento personale, ma anche di esatta valutazione e di se­ria riflessione sulla situazione reale. Quanto più varie sono le condizioni di vita di un uomo, tanto maggiore sarà per lui la responsabilità e la difficoltà di "dire la verità". Il bambino che ha un solo rapporto nella vita, quello con i genitori, non ha ancora nulla da considerare e da valutare. Ma la successiva cerchia di persone in cui la vita lo pone, la scuola, gli crea le prime difficoltà. È dunque estremamente importante dal punto di vista pedagogico che i genitori facciano comprendere al bambino (non è il caso di specificare qui in che modo) la dif­ferenza che c'è tra queste diverse cerchie e quindi tra le sue responsabilità.
Bisogna dunque imparare a dire la verità. Queste parole suoneranno scandalose per chi pensa che sia sufficiente un at­teggiamento morale irreprensibile e che il resto è cosa da nulla. In pratica però l'etica non si può disgiungere dalla realtà, perciò una sempre migliore conoscenza della realtà è parte integrante dell'azione etica. Ma nel caso in esame l'azione consiste in pa­role. Bisogna esprimere in parole il reale. In ciò consiste appunto il parlare veritiero. Ma allora si pone il problema inelu­dibile del "come" parlare. Sì tratta di trovare caso per caso la "parola giusta"; è questione di uno sforzo lungo, serio e sem­pre crescente basato sull'esperienza e sulla conoscenza della realtà. Per dire come una cosa è realmente, ossia per parlare in modo veritiero, bisogna che gli sguardi e i pensieri indaghino in che modo la realtà è in Dio, per mezzo di Dio e per Dio.
Limitare il problema del parlare veridico a singole situa­zioni di conflitto sarebbe un atteggiamento superficiale. Ogni parola che pronuncio dev'essere vera; a parte la veridicità del suo contenuto, il rapporto che essa esprime tra me e l'altra persona è vero o falso. Posso adulare, vantarmi, essere ipocrita, senza dire una vera bugia, eppure la mia parola è falsa perché io distruggo e dissolvo la realtà del rapporto tra marito e mo­glie, superiore e subordinato, ecc. La parola singola fa sempre parte di una realtà globale che vuole esprimersi attraverso la parola. Secondo la persona con cui converso o da cui sono in­terrogato o della quale parlo, bisogna che il mio discorso sia sempre diverso per essere veritiero. La parola veridica non è .una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. [Quando essa si distacca dalla vita e dal rapporto concreto con 'il prossimo, quando qualcuno "dice la verità" senza tener conto della persona a cui parla, c'è l'apparenza ma non la sostanza della verità.
Colui che pretende di "dire la verità" dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità. Circondandosi dell'aureola di fa­natico della verità che non può aver riguardi per le debo­lezze umane, costui distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la fiducia, tra­disce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza sulle ro­vine che ha causato e sulla debolezza umana che "non sopporta la verità". Egli dice che la verità è distruttiva ed esige delle vittime, e si sente come un dio al di sopra delle deboli crea­ture, ma non sa di essere al servizio di Satana.
Esiste una verità satanica. La sua natura consiste essenzial­mente nel negare tutto ciò che è reale, assumendo le apparenze della verità. Vive di odio contro la realtà, contro il mondo che Dio ha creato e amato. Si da l'apparenza di eseguire un giudi­zio di Dio sulla realtà caduta nel peccato. Ma la verità di Dio giudica il creato per amore, invece la verità di Satana lo fa per invidia e per odio. La verità di Dio si è incarnata nel mondo e vive nella realtà, mentre la verità di Satana è la morte di tut­to il reale.
Il concetto di verità vivente è pericoloso e fa nascere il so­spetto che sì possa adattare la verità alle diverse situazioni: in questo modo il concetto di verità si dissolve, mentre verità e menzogna si avvicinano fino a confondersi. Ciò che stiamo dicendo sulla necessità dì conoscere la realtà sì potrebbe anche fraintendere nel senso, che la quantità di verità che sono pronto a dire all'altro debba dipendere da un mio calcolo o da un mio atteggiamento pedagogico nei suoi confronti. È importante tener conto di questo pericolo. Ma la possibilità di superarlo sta unicamente nel discernere diversi contenuti e li­miti che la realtà stessa prescrive al mio dire affinché esso sia veritiero. Non è lecito però prendere a pretesto i pericoli in­siti nel concetto di verità vivente per sostituirlo con il con­cetto formale e cinico della verità.
Dobbiamo cercare di spiegare chiaramente quanto abbiamo detto. Ogni parola vive e ha la sua origine in un determinato ambiente. La parola detta in famiglia è diversa da quella detta in ufficio o in pubblico. La parola che nasce nel calore. di un rapporto personale si raggela nella fredda atmosfera delle cose pubbliche. La parola di comando, che è al suo posto nei pub­blici servizi, nella famiglia distruggerebbe i vincoli della fidu­cia. Ogni linguaggio deve avere un luogo che gli è proprio e non uscirne. Per mezzo dei giornali e della radio il linguaggio pubblico è enormemente aumentato e ha prodotto come conse­guenza una certa incapacità di distinguere i diversi linguaggi, cosicché, per esempio, è stata quasi distrutta la caratteristica specifica del discorso personale. Alla parola autentica si sosti­tuisce la chiacchiera. Le parole non hanno più peso. Si parla troppo. Quando i confini tra i vari linguaggi si cancellano e le parole non hanno più una loro radice, un loro ambiente, il lin­guaggio perde veracità e nasce quasi necessariamente la men­zogna. Quando i diversi ordinamenti della vita non si rispet­tano più mutuamente, le parole diventano bugiarde. Per esem­pio: un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega. La domanda del maestro ha creato una situa­zione che il bambino non è ancora in grado dì padroneggiare. Egli percepisce soltanto che si sta producendo un'ingiustificata interferenza nell'ordinamento della famiglia che egli deve di­fendere. Ciò che accade in famiglia non riguarda affatto Ì com­pagni di scuola. La famiglia ha il suo segreto e lo deve difen­dere. Il maestro ha disprezzato la realtà della famiglia. Nella sua risposta il bambino avrebbe dovuto trovare il modo di ri­spettare tanto l'ordinamento della famiglia quanto quello della scuola. Ma non è ancora in grado dì farlo: gli mancano la ne­cessaria esperienza, la conoscenza e la capacità di esprimersi propriamente. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un'istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità, che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna. In base alle conoscenze che aveva, il bambino ha agito bene; la colpa della bugia ricade esclusiva­mente sul maestro. Se al posto del bambino ci fosse stato un uomo d'esperienza, avrebbe potuto rettificare l'errore dell'in­terrogante evitando al tempo stesso la falsità formale della ri­sposta e trovando così la "parola adatta" alla situazione. Le menzogne dei bambini e delle persone senza esperienza deriva­no spesso dal fatto che essi vengono posti in situazioni che non sono in grado di padroneggiare. C'è dunque da chiedersi se il concetto di menzogna, che è e che va inteso come qualche cosa di rigorosamente condannabile, possa essere ragionevolmente esteso e ampliato fino a identificarlo con il concetto dell'affer­mazione formalmente contraria alla verità. Abbiamo visto or ora quanto sia difficile dire che cos'è propriamente una men­zogna.
La definizione corrente, secondo cui è menzogna la contrad­dizione consapevole tra pensiero e parola, è assolutamente in­sufficiente. Su quella base si dovrebbe condannare il più inno­cuo "pesce d'aprile". Il concetto di "bugia scherzosa", derivato  dalla morale cattolica, toglie alla menzogna il suo carattere spe­cifico dì cosa grave e malvagia (e toglie d'altra parte allo scher­zo il suo carattere di gioco innocente e libero), ed è perciò un concetto poco felice. Lo scherzo non ha nulla a che vedere con la bugia, e non è lecito ridurli a un denominatore comune. Se si dicesse che la menzogna è l'atto dell'indurre scientemente in errore un'altra persona a suo danno, si includerebbe nella de­finizione anche l'inganno del nemico cui si ricorre necessaria­mente in guerra e in altre situazioni analoghe. (Kant ha detto di essere troppo orgoglioso per dire mai una bugia, ma ha involontariamente spinto questo principio a conclusioni assurde : affermando che si sentirebbe obbligato a dare informazioni ve­ritiere anche a un criminale che venisse a cercare qualcuno ri-fugiatosi presso dì lui.) Se si chiama bugiardo chi inganna il nemico in guerra, la bugia viene ad avere una consacrazione e una giustificazione sociale assolutamente in contrasto con ciò che essa è. Se ne deduce in primo luogo che la menzogna non sì può definire formalmente come contraddizioone tra pensiero e parola. Tale contraddizione non è neppure un elemento neces­sario della menzogna. Da questo punto di vista esiste un modo di parlare corretto e incontrovertibile, che tuttavia è bugiardo; per esempio quando un notorio mentitore dice per una volta "la verità" per fuorviare chi l'ascolta, oppure quando sotto la apparente correttezza si nasconde consapevolmente un equivo­co, o quando la verità decisiva viene volontariamente celata. Anche il deliberato silenzio può essere una menzogna, ma non  necessariamente.
Da queste considerazioni risulta evidente che l’essenza della menzogna è molto più profonda che la contraddizione tra pen­siero e parola. Si potrebbe dire che dipende dall'uomo che pro­nuncia una parola se essa sia veritiera o falsa. Ma anche que­sto è insufficiente; la menzogna infatti è qualche cosa di ogget-tivo e dev'essere definito come tabe. Gesù chiama Satana "pa­dre della menzogna" (Gv 8, 44). La menzogna è prima di tutto la negazione di Dio, come si è manifestato al mondo. "Chi è bugiardo se non colui che nega che Gesù è il Cristo?" (1 Gv 2, 22). Menzogna è il contraddire la parola dì Dio, che egli ha detto in Cristo e sulla quale riposa il creato. Men­zogna è dunque la negazione, il annegamento, la consapevole e volontaria distruzione della realtà quale e stata creata da Dio e sussiste in lui, nella misura in cui lo si può fare con le pa­role o con il silenzio. Le nostre parole sono destinate a espri­mere, in unione con la parola di Dio, la realtà come essa è in Dio, e il nostro silenzio dev'essere segno del limite che la real­tà, così come essa è in Dio, pone alla parola.
Nei nostri tentativi di esprimere la realtà, non la scopria­mo come un tutto unitario ma la troviamo in uno stato di divi­sione e di contraddizione con sé stessa, che ha bisogno di ri­conciliazione e di guarigione. Ci troviamo inseriti allo, stesso tempo in diversi ordini della realtà, e la nostra parola, che tende alla riconciliazione e alla guarigione della realtà, è sempre di nuovo trascinata nella divisione e nella contraddizione esi­stenti, e può dunque adempiere il suo scopo di esprimere la realtà cosi come essa è in Dio, soltanto a- condizione di assu­mere ih sé tanto la contraddizione esistente, quanto l'intima coerenza della realtà. La parola umana per essere vera non può negare né il peccato né la parola dì Dio creatrice e riconcilia-trice, nella quale ogni divisione è superata. Il cinico vuole fen­dere veritiera la propria parola con l'enunciare di volta in volta le singole cose che crede di aver percepito, ma senza tener conto della realtà nel suo insieme; appunto perciò egli distrug­ge completamente la realtà; e anche se superficialmente la sua parola sembra giusta, di fatto è falsa. "Tutto quello che esiste è lontano e molto profondo; chi Io troverà?" (Eccl. 7, 24). Come potrò dire la verità?
1. Rendendomi conto dì chi mi spinge a parlare e di che cosa mi da diritto di farlo.
2.    Rendendomi conto del luogo in cui mi trovo.
3.    Collocando in questo contesto l'oggetto di cui parlo.
Queste indicazioni presuppongono tacitamente che il par­lare sia soggetto a determinate condizioni; esso non accompa­gna ininterrottamente tutto il corso della vita, ma avviene a suo tempo e luogo e con uno scopo appropriato, e quindi ha i suoi limiti.
1. Chi o che cosa mi da diritto o mi muove a parlare? Chi parla senza averne diritto o senza motivo è un chiacchiero­ne. Ogni parola sta in un doppio rapporto con un'altra persona e con una cosa; bisogna dunque che questo rapporto sia eviden­te in ogni parola. Un discorso che non ha relazione con nulla è vuoto: non contiene nessuna verità. C'è in questo una diffe­renza essenziale tra pensare e parlare. Il pensiero in sé non ha necessariamente un rapporto con qualcuno ma solo con qualche cosa. La pretesa di aver diritto di dire quello che si pensa non sì giustifica affatto. La parola deve avere una giustificazione e una motivazione nel prossimo. Per esempio: posso pensare che un altro sia stupido, brutto, incapace, senza carattere, oppure anche intelligente e coscienzioso. Ma è una cosa ben diversa sapere se ho diritto di parlare e che cosa mi spinge a parlare di queste cose e con chi. Senza dubbio esiste un diritto di pa­rola connesso con una funzione che mi sia stata affidata. I ge­nitori possono biasimare o lodare il bambino, mentre il bambi­no non ha lo stesso diritto nei loro riguardi. Tra maestro e scolaro esiste un rapporto analogo, sebbene i diritti del mae­stro verso Ì bambini siano più limitati di quelli del padre. Perciò la critica o la lode che il maestro rivolge allo scolaro sarà circoscritta a singoli errori e risultati ottenuti, mentre certi giudizi generali sul carattere del bambino toccheranno ai geni­tori e non al maestro. Il diritto di parlare si trova sempre nel­l’ambito della concreta funzione che io esercito. Quando si oltrepassano quei limiti, la parola diventa indiscreta, presuntuosa e urtante, tanto se loda quanto se biasima. Vi sono persone che si sentono chiamate a rivolgersi a tutti quelli che incontrano e (così si esprimono) a "dir loro la verità".

Pubblicato in appendice a Dietrich BonhoefferEtica.  Bompiani, Milano 1969. I edizione Studi Bompiani, 1992. (308-314)

Toy Story 2 - When she loved me (Italian) ♪ Francesca